L’estate dei caldoni - La Stampa

2022-07-31 21:40:33 By : Mr. Arvin Liu

La voce de La Stampa

Fin dall’inizio, e ancora per qualche anno, la paura dei cani era stata un po’ un mezzo massacro, ma almeno era localizzata a Guzzano. A Modena non c’era perché a Modena di cani liberi ce n’era meno. E infatti mi ricordo ancora che su in montagna facevano un po’ gli stronzi, cioè quando uscivo di casa e svoltavo l’angolo, andando verso le panchine dei Righetti, là spesso c’erano seduti in due o tre, tra cui uno che si chiamava Renzo, che avrà avuto tre o quattro anni più di me e andava in giro con questo bracco bianco a chiazze marroni che si chiamava Lampo, e appena mi vedevano lui gli diceva «vai Lampo, vai» e il cane mi correva contro, a gran velocità, e io riscappavo verso casa, a gambe levate, e forse all’inizio piangevo, ma già a cinque anni protestavo e basta, e a quel punto usciva mio nonno e la banda abbassava subito la cresta.

E comunque dopo ci deve essere stata questa fase intermedia, dai cinque ai sette anni, in cui io continuavo ancora a avere paura dei cani, ma avevo anche il desiderio di far finta di non aver più paura dei cani, e quindi uscivo, ma se arrivava Lampo a rompermi i coglioni, cioè, venendo aizzato, partiva verso di me e mi arrivava addosso a gran velocità, senza che poi mi facesse qualcosa di particolare, perché non è che mi mordesse, ma comunque già il fatto in sé che mi arrivasse addosso a gran velocità bastava a spaventarmi, ma io adesso invece di scappare stavo fermo, anche se avevo ancora voglia di scappare, perché era già la fase in cui io continuavo a andargli incontro come se non avessi paura, cercando di manifestare una non-paura, anche se avevo dentro ancora intatta quella stessa paura di un anno prima e di due anni prima, ma quella paura la tenevo ferma dentro di me nella convinzione che così non si vedesse.

Cosa che mi è successa varie volte nella mia vita seguente, e mi era risuccessa alla sua intensità più massimale più di vent’anni dopo: avevo circa ventisette anni e una mattina ero andato a trovare mia zia Maria, che aveva già novantotto anni e io, dopo essermi preparato la mia tazza di caffelatte, ero andato da lei, nell’appartamento di fianco, per fare la colazione insieme a lei e le avevo chiesto «come va oggi zia?» e la zia mi aveva fatto un discorso strano sui miei cugini gemelli e sul perché non riuscivano mai a andare d’accordo che sembrava uno strano testo simbolico-mitico sul fatto che essendo nati quando cambiava secolo e essendo nato uno prima della mezzanotte e l’altro dopo la mezzanotte, gli era toccato di vivere sempre in due secoli diversi (come se uno fosse rimasto a vivere tutta la sua vita nel diciannovesimo secolo, mentre l’altro avesse fatto tutta la sua vita nel ventesimo secolo) e quindi per quel motivo non avevano mai potuto capirsi veramente e non andavano d’accordo e spesso litigavano; invece in realtà i miei cugini erano nati nel 1953, e erano nati tutti e due il dodici dicembre e non il trentuno, e comunque man mano che mia zia andava avanti nel suo discorso completamente illogico, perché a un certo punto mia zia si era messa a parlare del fatto che aveva un po’ di mal di pancia, e poi aveva detto delle altre cose nominando una lepre, e io, mentre che lei parlava, volevo mantenere una faccia sorridente, allora lo sforzo intimo di cercare di mantenere quell’aspetto sorridente della faccia mi aveva dato una sensazione come se ci fosse una lama di gelo che stava segando le mie guance dal mio resto del corpo, che invece stava diventando bollente, mentre le guance me le sentivo diventare di lamiera, ma bloccate, e avevo finito in silenzio la mia tazza di caffelatte, poi avevo salutato la zia e ero tornato di là in casa mia con la sensazione che stavano succedendo delle cose definitive, tra le quali un po’ di paura di riparlare con la zia. Saranno state le dieci di mattina e io ero rimasto da solo in casa fino a quando non sarebbero tornati da lavorare i miei, verso l’una, e aggirandomi per casa, in questo tempo ogni tanto mi era sembrato di sentire dei rumori venire da di là dal muro, dalla parte di mia zia, e ogni volta li avevo ascoltati con un po’ di agitazione. E visto che la paura ha le sue più strane evoluzioni, essendoci questo muro confinante diretto tra i due appartamenti (di qua dal muro ci stavamo noi, di là dal muro le zie) anche i rumori improvvisi che provenivano da di là dal muro avevano iniziato a farmi fare un mezzo salto, per lo meno interiore, ma qualche volta anche fisico, tanto che due o tre volte mia madre mi aveva chiesto che cosa avevo, anche se io le avevo sempre risposto che non avevo niente. Ma quest’ansia dei rumori che provenivano da di là dal muro mi era andata avanti per qualche mese, il primo mese in modo fortissimo, dove io, quando ero in certe stanze della casa, ero diventato più che altro uno che ascoltava i muri, anche se non volevo, non avevo voglia di essere uno che ascoltava i muri, tanto che delle volte mi dicevo «ma perché abbiamo sempre abitato di fianco», anche perché in questa fase forzata di ascolto muri poi, era difficilissimo distinguere con certezza che cosa veniva esattamente da di là dal muro rispetto a quello che magari veniva da sopra il muro oppure veniva da sotto il muro.

E così, da un momento all’altro, mi era venuta la paura di parlare con mia zia, e questa paura ne aveva fatte partire altre due o tre, oppure, potremmo dire, si era sviluppata in due o tre direzioni che tutte erano diventate produttive di qualcosa che si esplicava in me nella modalità del colpo al cuore momentaneo e ripetuto. Vari colpi al cuore, momentanei e ripetuti, mattina e pomeriggio, oppure sera, notte. E io mi trovavo da una parte a patire questi X, Y, Z che partivano da dietro al muro con questi salti di paura e dall’altra parte a guardarli questi salti di paura e chiedermi perché, perché ero ancora in questa strana modalità vitale del chiedersi il perché, ma il perché di cosa?

Le strane cose che succedono dentro i nostri cervelli e che secondo me sono esattamente le stesse cose che succedono dentro le nostre vite, cose che io avevo visto ormai svolgersi varie volte, dove più o meno secondo me è proprio come prendere un guanto di gomma, come quelli per lavare i piatti, e se tieni il guanto alla dritta, il lato fuori del guanto sarebbe la tua vita, e il lato dentro del guanto sarebbe il tuo cervello, con una corrispondenza uno a uno tra fuori e dentro, ma è la corrispondenza di cosine piccolissime che si muovono in fretta e furia come atomi, sia dentro che fuori, e quello che dovresti fare quando arrivi a un certo punto, cioè quando finisci in una certa situazione che ti risulta insopportabile, se fosse possibile, sarebbe rivoltare il guanto, in modo che il lato fuori del guanto diventi il tuo cervello e il lato dentro del guanto diventi la tua vita, per riuscire a farci qualcosa, ma questo non è possibile e in ogni modo non è poi che riesci a guardare né la tua vita né il tuo cervello, quindi che cosa è fuori e che cosa è dentro non è più importante, perché in ogni caso alla fine non riesci a vedere niente, che sia fuori o che sia dentro, perché è tutto piccolissimo e furioso, e il piccolissimo e furioso non lo vedi mai, e non vedi mai neanche i suoi duecento movimenti istantanei, e puoi soltanto starci dentro, perché è impossibile tanto star fuori dalla tua vita quanto star fuori dal tuo cervello, e quindi poi quello che mi sembrerebbe più possibile sarebbe riuscire a affrontare la propria vita in questa prospettiva di essere quasi sempre più o meno al buio e che ci vuol pazienza e bisogna prender atto che si è nella stanza buia, come unica modalità che c’è di quel che si può fare, e che bisogna iniziare a spostare tutte delle cose che non puoi vedere perché sei al buio, e allora sposta, sposta, sposta finché non arriverà qualcosa di più sopportabile così che la stanza buia, pur restando buia, diventi più comoda per starci.

Tra l’altro le strane parole di mia zia mi avevano lasciato addosso varie altre cose tra le quali una cosa che io avevo iniziato a chiamare la palla bollente: cioè che non si sa perché, perché andava e veniva continuamente, e andava e veniva per i cazzi suoi, ma mi veniva questa palla bollente all’interno di me, un po’ sotto l’ombelico, forse in uno dei giri che fa il colon, infatti mi ero anche chiesto se quella cosa lì fosse il famoso colon irritabile, che conoscevo per sentito dire perché mia madre soffriva di colon irritabile, che come le avevano spiegato non era tanto un problema intestinale quanto un problema vitale, e comunque, per quel che interessava me, la palla bollente spesso veniva, si metteva lì e restava. Perché la cosa notevole di quello che io avevo chiamato paura, in realtà mi sembravano delle specie di frenesie a movimento imploso, che ti arrivavano dentro, come la lama di gelo tra guancia interna, o guancia muscolare spontanea, o forse guancia di espressione delle energie interne mie, e la guancia esterna, o guancia di comunicazione e quindi forse, in ultima analisi, guancia affettiva verso la zia, dove la lama di gelo si era prodotta forse nella disarticolazione tra guancia interna e guancia esterna, ognuna delle due con la sua singolare ragione, perché dicevano due verità diverse ma tutte e due vere, e a loro modo tutte due le guance avevano ragione, perché ognuna delle due guance aveva ragione, solo che erano due ragioni delle quali ognuna aveva una sua direzione di azione muscolare, ma erano direzioni diverse il cui attrito mi aveva prodotto la lama di gelo dentro la faccia, dove la lama di gelo mi aveva prodotto poi uno «sto qui» ma anche uno «scappo appena posso» che era assolutamente nuovo per me, con due o tre frenesie incastrate l’una nell’altra perché stavo lì col desiderio di scappare, e son stato lì fino a quando la zia non ha fatto una pausa, che aveva finito il suo strano discorso, e io le ho detto subito «ciao zia, torno di là da noi» e sono uscito di passo normale anche se stavo facendo dentro i diecimila all’ora, con l’anima a razzo pompato al massimo. Era l’effetto cane che ti corre incontro, ma da subire da fermi, o da quasi fermi. Cioè altro attrito, come se una pressa orizzontale avesse compresso quei settanta metri in un metro.

Tra l’altro quello che mi ero chiesto vari anni dopo, ripensando a quel mese di paura furiosa dei rumori che provenivano da di là dal muro, e della paura di riparlare con la zia, ma di là dal muro ci abitava anche la zia Bruna (la sorella di mia madre, mentre la zia Maria era la zia della zia Bruna e di mia madre, nonché mia prozia) e quindi poi quello che mi ero chiesto varie volte era: in quel mese, o forse due mesi, io che ormai, oltre a ascoltare ossessivamente il muro, pur non volendolo ascoltare, ma sempre proiettato verso questi rumori, infatti appena potevo scappavo di casa per non essere stampato nell’ascolto di questi rumori, e passeggiavo per dei chilometri alla cazzo di cane, perché avevo paura di restare in casa, ma non ero nello stato di vedere volentieri qualcuno, quindi avevo bisogno di star solo, quindi passeggiavo alla cazzo di cane verso il niente perché scappavo da qualcosa (la zia, la casa) ma non andavo particolarmente verso niente, e uscivo alle due e ritornavo a casa alle sette e mezzo, dei pomeriggi mi ero fatto su e giù tutti i viali della zona musicisti che andavo su per un viale e poi tornavo giù per il parallelo e così via per tre ore, e comunque quello a cui avevo spesso pensato nei periodi seguenti, dopo la mia riemersione, cioè ormai qualche anno dopo, era: io in quel periodo la zia Bruna la vedevo o no, non volendo andar di là perché mi era venuta paura di parlare con la zia Maria? E se la vedevo, come la vedevo, la vedevo nei momenti in cui per esempio la zia Maria faceva il pisolino? Oppure la vedevo attraversando il corridoio di casa loro di corsa come un ladro, con sta paura di vederla, approfittando che la zia Maria, che poveretta, era ormai quasi sorda (98 anni) anche se aveva un apparecchio acustico, e anche ormai quasi cieca perché da una decina d’anni le era venuta la cataratta, che allora operavano a Cuba da un po’ e in Italia ancora quasi niente, e quindi però, tornando a quello che raccontavo, forse io ero andato qualche volta di là, come dicevo come un ladro, senza vedere la zia Maria, attraversando in fretta e in silenzio il corridoio, mentre la zia Maria, nel suo quasi isolamento percettivo, guardava da sola la tele in sala, e forse io svoltavo subito nel corridoietto e raggiungevo la zia Bruna in cucina, e questo di sicuro io devo averlo fatto, e l’avrò fatto varie volte, anche se non mi ricordo per niente di averlo fatto, come non mi ricordo per niente della mia fidanzata, che ci eravamo lasciati un anno dopo, e quindi a quel tempo dovevo vederla, e dovevo vederla almeno tre o quattro volte la settimana, e di sicuro avremo anche scopato almeno qualche volta alla settimana, perché era ancora quell’epoca così, ma zero ricordi precisi, non mi ritrovo quasi niente in testa, soltanto una fumana vaga di deduzioni spente, neanche qualcosa di pulviscolare da attaccare un pezzetto alla volta, c’ho ripensato tante volte, ma niente, uno non ci riesce più a ricordarsi di quasi niente. Perché il cervello o la vita dovevano smontarsi per poi ristrutturarsi. C’era questa situazione nel mio cervello in cui tutto era diventato come delle placche di pensieri, che non erano pensieri, ma foto di qualcosa un po’ spaventose, che a un certo punto arrivavano a una specie di galleggiamento in mezzo a quello che potevo percepire della mia testa che per il resto era diventata informe. Ma anche lo star fuori non aveva molto senso perché è vero che quando ero fuori non ero più in casa e quindi in un certo senso ero fuori, ma ero fuori in un modo che di fuori non ne riusciva a arrivare, come se fossi arrivato a una situazione di inuscibilità. Inuscibilità da niente, dovunque mi riducessi a stare. Nella mia vita ci era arrivata l’inuscibilità come condizione di base. Quindi poi mi facevo questi viali, per tutto il pomeriggio, andando su per un viale e tornando giù per il viale di fianco, e poi di nuovo su per il viale ancora di fianco e di nuovo giù per il viale ancora di fianco, con questa foga di camminare, e non lo so quanti chilometri io abbia potuto aver fatto su e giù per sti viali in quei giorni, questi viali che all’inizio erano i viali intorno al centro, i viali che avevano sostituito le vecchie mura, ma lì era troppo vicino a casa mia, visto che nei viali intorno al centro correvo il rischio di incontrare qualcuno, e dopo ciao ciao come va, va così ecc, e te?, ma ero in questa situazione di far fatica a parlare, come se per fare delle parole e riuscire a farle uscire dalla gola dovessi spostare qualcosa che pesava dei chili per ogni parola, due frasi uguale aver spostato duecentotrenta chili, quindi adesso, dopo, fare i viali di zona musicisti, ma fare questi viali nonostante tutto era come se restassi a camminare per delle ore su e giù per il corridoio di casa mia con la paura dei rumori di là dal muro e delle brutte foto emergenti nel cervello, e quindi il corridoio di casa mia andava a dislocarsi nei viali intorno a me, cancellando il possibile effetto viale, che del viale non restava niente, cioè, detto in modo più preciso, il mio corridoio andava a rilocarsi nei viali di zona musicisti in quanto io, per la triste nuova condizione della mia povera anima, dovunque andassi a portarmi il mio nuovo più o meno me, mi portavo dovunque addosso o intorno questa specie di corridoio di casa mia, corridoio più sala, e così via, senza riuscire a uscirci fuori per stare da qualche altra parte. Infatti io, quello che non riuscivo più a fare, era stare da qualche altra parte. Non c’era più un’altra parte da nessuna parte.

Se una casa sia più che altro una specie di cervello, fatto dai discorsi/pensieri/emozioni di quattro cervelli o, nel mio caso di allora, di sei cervelli (c’era ancora da aggiungere le zie dell’appartamento di fianco), in modo che quando uno entrava in casa, senza neanche accorgersene, entrava in un nuovo e diverso cervello rispetto a prima, e quando invece usciva di casa, allora ‘sta volta usciva da quel cervello per entrare in un altro cervello, il cervello di fuori, che è sempre stato una specie di policervelli a macchie di leopardo a seconda di quel che capita (e forse sarebbe poi meglio dire polianime che policervelli), cioè esci con Carlo e finisci in questa nuova anima te-Carlo, esci con Gianni e sei in questa nuova anima te-Gianni e così via, e se invece esci in bicicletta, sei in quest’anima te-bicicletta che è diversa dall’anima te-automobile, oppure vai dalla fidanzata e finisci dentro questa nuova anima te-fidanzata, e comunque, varie volte, quando di notte, ma non a notte fonda, facciamo verso le undici di sera, che uno tornava da Bologna, e mi piaceva quando tornavo a piedi dalla stazione a quell’ora, le rare volte che ero restato a Bologna fino a tardi, e tornando dalla stazione, quando per esempio arrivavo in viale Nicola Fabrizi, una cosa che mi veniva e che mi è sempre piaciuta era guardare verso l’alto che ancora si vedevano nei palazzoni i vari soffitti delle stanze illuminate, vari appartamenti completamente bui e uno ogni tre o quattro appartamenti bui invece soffitti di stanze illuminate, e guardando quei soffitti io sempre immaginavo che in quelle stanze ci succedessero delle cose bellissime, non so, quasi sempre che ci stesse gente innamorata o felice, che io guardavo a partire dalla mia infelicità media, e allora non avevo ancora capito che tutta la felicità è guardare soffitti illuminati dei palazzi, la felicità è guardare, ma non perché sei felice, ma perché guardi, perché non sei felice perché sei felice, ma sei felice perché guardi, e basta, e invece il fastidioso è sentire sé, guardare sé, e tutti gli ecceteraeccetera-té-stanti che posson capitarti, e infatti, tutti quei bei periodi che andavi tre ore al bar, chiacchiere, tavolino all’aperto, passa una macchina, chiacchiere, arriva il piccione, chiacchiere, ti vede uno in bicicletta che non vi vedevate da tre anni, si ferma, ti chiede come va, gli dici come va, gli chiede a te come va? Va come va, ciao, ciao, guardi il giornale, altre chiacchiere, non sei più te, zona neutrale, vacanza, due ore di vacanza nella terra di nessuno, né con i tuoi né col nemico, e neanche con te, terra neutrale, ambiente neutrale. Niente sé, flussi alla cazzo e così via. Il modo per rendersi più sopportabile la vita. Poi rientri in casa, e sei di nuovo incasato, ma incasato fino al buco del culo. Poi però dopo due ore esci di nuovo, di nuovo in vacanza. Invece io, basta vacanza, basta uscire, perché uscire era diventato uguale a stare in casa, e stare in casa era diventato uguale a non stare neanche in casa perché c’erano questi pensieri che mi attraversavano continuamente la testa nonostante io non è che li volessi, né in casa né fuori casa, ma non c’era più niente da fare perché stavano lì nella mia testa a sparate quasi consecutive, perché c’erano questi pensieri che magari avevo fatto cinquemila volte, formulandoli magari esattamente con le stesse parole, e che in genere mi facevano ridere, cioè mi piaceva farli, che adesso, se mi passavano attraverso la testa avevano cambiato completamente il loro tono emotivo. Per esempio tre o quattro giorni dopo gli strani discorsi illogici di mia zia, allo stesso modo più o meno degli ultimi duemila e cento giorni della mia vita, io mi ero alzato e ero andato a metter su la moca per farmi il caffè, e esattamente sul muro dietro il fornello erano appesi cinque o sei coltelli di quelli un po’ grossi, e io, come credo negli ultimi duemila e cento giorni della mia vita, guardando il fornello e la caffettiera mentre accendevo il gas, mi aveva attraversato la testa la frase«ma guarda quante cose per ammazzarsi che ci sono in ogni casa», frase che normalmente mi avrebbe fatto ridere, ma quella mattina invece non mi aveva fatto ridere, ma avevo di nuovo sentito che arrivava la lama di gelo che mi segava in due, e mi era venuta di colpo qualcosa di simile come alla paura che ci fosse qualcosa che mi voleva ammazzare (in me o da qualche altra parte), e quindi poi con la lama di gelo che mi segava in due, ero andato subito a tirare giù tutte le serrande delle finestre mentre il caffè veniva su, e dopo che il caffè era venuto su, stando attento a non guardare i coltelli, avevo preso la tazza e ci avevo aggiunto il latte, e ero corso in una poltrona, che non so perché sulla poltrona mi sembrava di essere momentaneamente in salvo, come se la poltrona avesse intorno una specie di cerchio magico per tenere lontano gli spiriti cattivi che volevano mangiarmi, ma appena seduto e tranquillizzato mi ero accorto che non mi ero portato sulla poltrona le sigarette, e per venti secondi ero stato lì in poltrona pensando se andavo o se non andavo a prendere le sigarette perché uscire dalla poltrona mi faceva venire paura, anche perché appena seduto sulla poltrona avevo pensato che dovevo stare fermo lì sulla poltrona a aspettare che tornasse a casa la mamma, che questa idea che prima o poi tornava la mamma mi faceva sentire già un po’ in salvo, ma appena in salvo sulla poltrona adesso si era manifestato di colpo il problema sigarette, e quindi ero scappato a prendere le sigarette praticamente di corsa come se mi avesse inseguito una bestia feroce, e avevo preso le sigarette e ero saltato sulla poltrona, ma prima di saltare sulla poltrona avevo spostato la poltrona verso la tavola in modo che stando in poltrona senza bisogno di mettere giù neanche un piede, infatti volevo anche tenere i piedi su senza appoggiarli per terra, io avessi a portata di mano sigarette accendino portacenere e così via, e così mi ero rimesso in poltrona cioè in salvo, e lì adesso ero in salvo cercando di sopportare queste frasi che mi passavano per la testa alla velocità dei razzi con sta sensazione della lama di gelo che mi segava, pensando però questa frase che dovevo restare lì fermo a aspettare che tornasse a casa la mamma, che saranno state soltanto tre o quattr’ore da star lì fermi, e nel frattempo sentivo ogni tanto i rumori di là dal muro, essendo io seduto a tre o quattro metri dal muro, quando di colpo si era sentita aprire la porta e era entrata questa strana donna di servizio che c’era da due o tre anni, che era una tipo un po’ strana, anziana, che aveva trovato mio padre perché gliela aveva consigliata qualche suo collega di lavoro, e che veniva una volta alla settimana e la sfiga aveva voluto che venisse proprio quel giorno lì, e soltanto che io ho sempre dormito con addosso una maglietta vecchia, che a un certo punto diventava maglia da di sotto, e senza calze e mutande e quindi ero lì sulla poltrona senza mutande e le avevo urlato subito che doveva scusarmi ma non sapevo che venisse e quindi ero ancora mezzo nudo e lei mi aveva detto che non le importava niente e che andava in cucina, e dopo mi aveva urlato se poteva alzare la serranda della cucina che c’era un po’ buio per pulire e io le avevo detto ma sì, faccia pure, ma comunque poi avevo dovuto di nuovo abbandonare la poltrona e ero corso in camera per vestirmi e poi ero subito tornato in poltrona, e mi ero rimesso al sicuro sulla poltrona a finirmi il caffelatte e a fumare, restando fermo e al sicuro a aspettare che arrivasse la mamma, con sti pensieri che passavano continuamente a razzo dentro la mia testa, poi era tornata questa donna di servizio a chiedermi se restavo lì e io senza darle spiegazioni le avevo detto che dovevo restare lì, allora lei mi aveva detto se andava bene che facesse i bagni e io le avevo detto che andava bene, e lei aveva detto che alzava un po’ di serrande per vedere dove puliva, e io le avevo detto che alzasse pure tutto quello di cui aveva bisogno, ma comunque in un tempo che non saprei più dire se era stato lunghissimo o brevissimo a un certo punto lei era tornata per dirmi che era l’una e quindi se ne andava e io l’avevo salutata, e appena era uscita io mi ero rifatto il giro della casa a tirar giù di nuovo tutte le serrande delle finestre, poi ero risaltato sulla mia poltrona, a aspettare la mamma.

La mamma era poi finalmente arrivata, per fortuna prima di mio padre, che se ci penso adesso non c’erano ragioni perché dovesse tornare prima mia madre di mio padre, e se fosse tornato prima mio padre sarebbe stata un’altra cosa, non perché mio padre fosse un cretino che anzi, nel passare degli anni mi sono reso conto che era intelligentissimo, ma sarebbe stata comunque un’altra cosa, e quindi mi ero ritirato con mia madre nella camera dei miei fino a quando mia madre mi aveva detto che doveva proprio andare a mangiare se no mio padre si arrabbiava, infatti si erano già sentiti due o tre volte i suoi urli che era pronto in tavola. Con mia madre comunque, se ben mi ricordo, ci avevo pianto e basta, senza darle grandi spiegazioni, perché avevo addosso la bomba energetica. Ovviamente, anche se non mi ricordo esattamente, anche perché ormai era diventato tutto uguale, probabilmente alle due e mezzo o alle tre ero uscito per il mio solito giro dei viali.

Ma l’aspettare la mamma come salvezza, da intendersi come salvezza al cento per cento, se sei abbracciato alla mamma sei salvo al cento per cento dagli spiriti cattivi, mentre la poltrona era stata la salvezza soltanto di quella mattina lì, visto che uno si arrangiava sempre come poteva sul momento, senza che ci fossero grandi strategie disponibili, dopo la poltrona come salvezza non mi era neanche più ritornata in mente, mai più dopo era successo che fossi tornato di corsa su quella poltrona per mettermi in salvo dagli spiriti cattivi, e io dopo, quando il cervello mi si era un po’ liberato, mi ricordavo che c’era questa teoria che dovevo aver letto da qualche parte, e io ero abbastanza convinto che fosse il libro di Deleuze su Foucault, in cui parlando del fuori e delle pieghe e degli strati, allora ci doveva essere questa teoria che sei in una fase della vita, non so, da zero a tre anni, e il tuo cervello stratifica e fa uno strato tipo paura-del-buio più mamma, e poi entri in una nuova fase della vita, il cervello di nuovo stratifica e non so, fa un altro strato con asilo-nonno-appartamento delle zie, e la vita cambia ancora, e la vita è come un guanto e fuori c’è la nuova vita che incontri e il dentro c’è il nuovo strato che è amici delle scale del palazzone-prima elementare-cani-nuova sorellina e così via, nuove fasi, nuovi strati, ma la vita continua a cambiare e cambia a salti e per vie di qualità, e invece gli strati del cervello sono strati, come nella tettonica a zolle, e la tua vita va di là, e il tuo cervello va da un’altra parte, e come nella tettonica a zolle, quando la tua vita se n’è andata troppo per di là, e i piccoli dolori quotidiani te lo dicono e segnalano, ma la vita va ancora per di là, mentre tu non vai ancora per di là ma vai ancora per di qua, ecco che a quel punto si apre la faglia oceanica e butta su roba, e anche nel tuo cervello ogni tot arriva roba fusa dalla faglia, e inizia una parziale fusione degli strati, e poi continua a fondere di più, con sempre più roba fusa che arriva, con sprofondamenti di quello che stava sopra (strato quindici-venti) e riemersioni di piccoli pezzi degli strati che stavano sotto (strato zero-tre anni), ed ecco che tu adesso stai in questo strato semi fuso di nuova stratificazione del tuo cervello, fatto di materiali fusi con isole di strati ancora solidi di epoche diverse – se arriva la mamma sei salvo – i viali come non viali – rumori dal muro – paura – poltrona - e così via. C’è del fuso e del non fuso. E questa cosa, che anni dopo avrei voluto tanto rileggere, non l’avevo più ritrovata, o non l’avevo più riconosciuta, tanto che negli anni seguenti ne avevo parlato due o tre volte con Gianni, un mio amico di Ferrara, come cosa che avevo letto e che mi spiegava meglio le epoche dei miei sfasamenti dolorosi e i loro strani cicli che arrivavano nella vita e che mi restavano in sostanza dei parziali misteri per quanto riguardava le loro dinamiche e le loro spiegazioni.

Ma quella fase (nella fase più acuta, direi, il bombardamento era durato un mese mezzo, in cui sentivo che dovevo cercare di restare in salvo il più possibile, e anche se sapevo cosa voleva dire, non sapevo neanche un minimo in non che cosa consistesse) e quella fase non era come se uno che sta male si siede su una panchina e sta lì sulla panchina perché è perso nella percezione dei suoi dolori e quando uno gli si siede di fianco sente che quello di fianco genera comunque una specie di campo attrattivo di disturbo per cui tu non riesci più a percepire i tuoi dolori, allora gli dici se doveva proprio venire a sedersi lì, poi ti alzi e te ne vai, se non se ne va lui, e invece era che sotto il bombardamento tutte le tue energie erano impegnate a resistere al bombardamento, per cui se uno si sedeva di fianco il bombardamento ti rendeva difficilissimo percepire lui e di fatto non lo percepivi, o ne percepivo dei pezzi, e costruire delle frasi di eventuali risposte mi costava un’energia mostruosa.

In realtà qualche anno prima, forse cinque, in una di quelle prime estati coi caldoni che iniziavano a arrivare, la zia Maria aveva già da un po’ superato i novanta, forse aveva novantatre anni al momento, durante i caldoni una volta era cascata per terra, e come al solito non si era fatta niente se non un gran livido viola su uno dei due lati della fronte, niente rottura di femore, nient’altro di grave. Il medico aveva detto che con quel caldo le arrivava poco sangue o poco ossigeno al cervello, non mi ricordo più esattamente, e quindi la zia avrebbe potuto avere questi attimi come di svenimento che erano pericolosi appunto perché uno poteva cadere e sbattere la testa, o rompersi qualcosa, e aveva consigliato di prendere un condizionatore di quelli che si spostavano, in modo che nelle stanze dove la zia Maria restava per più tempo l’aria fosse un po’ più fresca, e quindi, visto che per buona parte della giornata la zia Maria stava in sala, nella sua poltrona davanti alla televisione, questo condizionatore (se ben ricordo un Pinguino De Longhi) stava quasi sempre in sala, e la zia Maria, se per caso doveva alzarsi per andare in cucina, o in bagno, o in camera sua, doveva chiamare una delle due donne che si alternavano a tenerle dietro la mattina per darle il braccio (quelle che oggi si chiamerebbero badanti ma allora quel nome non usava ancora e mia zia, che della cosa era abbastanza scocciata, le chiamava le mie dame da compagnia). Queste donne andavano via a l’una e mezzo, dopo che la zia aveva mangiato e era andata a letto a riposarsi per due ore, perché poi a quell’ora c’era già qualcuno di noi e alle due tornava a casa la zia Bruna. E comunque quello che volevo dire era che in quei giorni un pomeriggio, saranno state le cinque, io ero andato di là dalle zie a far due chiacchiere, e non so il perché, ma a un certo punto ci eravamo alzati e eravamo andati nella stanza dove stava mia cugina Mariolina prima di sposarsi, e a un certo punto la zia Maria aveva iniziato a fare dei versi strani e la zia Bruna mi aveva urlato tienila su, che se no casca, e io avevo tenuto su la zia Maria, mentre la zia Bruna correva a prendere una seggiola da metterle sotto per sedercela, e quindi l’avevamo messa a sedere sulla seggiola, e lì sulla seggiola la zia poi aveva avuto qualche scossa che le aveva fatto un po’ anche perdere la dentiera, l’aveva un po’ come sputata fuori, ma più che altro aveva detto una serie di bestemmie e di parolacce di tipo sessuale, poi dopo due minuti era di nuovo tutto a posto, allora la zia Bruna le aveva detto: Come va, zia Maria? E la zia aveva chiesto se aveva avuto un altro attacco, e la zia Bruna le aveva detto di sì, ma che non era successo niente perché per fortuna c’ero lì io, che ero robusto e l’avevo tenuta su fino a quando lei non le aveva messo sotto una seggiola; poi la zia Bruna aveva aiutato la zia Maria a sistemarsi la dentiera perché la zia Maria si sentiva la bocca strana, e aveva detto che aspettavamo altri cinque minuti, poi la riportavamo in sala, e le avevamo chiesto Stai bene zia? E lei aveva detto che adesso stava benissimo, e infatti poi dopo cinque minuti ci eravamo alzati e io le avevo detto Ti do il braccio zia, non ti preoccupare che ti tengo su io, e l’avevamo riportata in poltrona, dove dopo un po’ la zia ci aveva chiesto se le accendevamo la tele, così noi potevamo andare a fare le cose che dovevamo fare. E io dopo ero andato in cucina con la zia Bruna, che c’ero un po’ rimasto, e avevo detto alla zia Bruna che io la zia Maria non l’avevo mai sentita dire delle parolacce e bestemmiare, che la zia aveva bestemmiato per un minuto e passa, e io non l’avevo mai sentita bestemmiare in tutta la mia vita, ma la zia Bruna mi aveva detto che erano i freni inibitori che quando arriva poco ossigeno al cervello partono, partiti i freni inibitori uno dice quello che non dice mai, e me l’aveva detto come se fosse la cosa più normale del mondo e forse lo era anche la cosa più normale del mondo, ma io avevo sempre letto Freud come se fosse una cosa a metà tra il fiabesco e la pornografia fatta in modo un po’ più ricco di significato, ma non l’avevo mai preso troppo sul serio e dopo, nella mia infantile e al tempo stesso luminosa visione delle cose del mondo, aver visto la zia Maria che perdeva la dentiera, uno che di colpo perde la dentiera perché un po’ si disarticola, anche se per un attimo e basta, e poi dice tutte quelle parolacce, anche se sempre per un attimo e basta, ma è un attimo che ormai c’è, tutta questa cosa mi aveva fatto una certa impressione, nel senso di una totale perdita di autocontrollo davanti a altre persone a te vicine, qualcosa come un piccolo sfacelo, anche se dopo due minuti di sfacelo era di nuovo tutto a posto. Mi ricordo che per qualche giorno avevo continuato a pensarci e a pensare che allora forse l’inconscio in qualche forma esisteva davvero. Pensiero però, che mi era durato soltanto qualche giorno, e non mi aveva generato addosso lo scompenso totale delle frasi illogiche di mia zia. Perché poi di queste crisi la zia in mia presenza non ne aveva più avute. Poi forse a un certo punto eravamo andati a Guzzano, al fresco, poi il fresco era tornato anche a Modena e così via, e nelle estati seguenti c’era stato fin dall’inizio il Pinguino De Longhi ben gestito e ste crisi erano finite. Non si erano più riproposte. E poi dovevo essere diverso io, e diversa in quegli anni la mia vita, e in ogni caso la zia aveva ancora qualche anno di meno. Poi erano passati degli anni.

Le cose che di colpo t’arrivano in faccia, come gli insetti, ma delle api e dei bombi per esempio non avevo mai avuto paura, si vede che mi era stato insegnato così, anche se due o tre volte delle api mi dovevano aver punto, perché più o meno mi ricordo di qualche puntura giovanile, ma lo stesso, lì non si è mai sviluppata una fobia da avere mezzo corpo che ti scappa da solo, più veloce di te. E invece delle altre volte, che passeggiavo per un prato e di colpo t’arriva in faccia qualcosa, quasi in bocca, che ti fa schifo se per caso hai la bocca mezza aperta, che riesci a chiuderla al volo all’ultimo momento, per esempio i preti-gogò, quelle farfalle nere con le ali nere a piccoli pois bianchi, che di colpo te le ritrovavi in faccia che ti sfioravano anche la bocca.

Allo stesso modo era andata varie volte la mia vita, ogni cinque o sei anni, che uno passeggia e vede intorno a lui varie cose che vanno, ma sono sempre cose a cinquanta metri da lui, a cento metri da lui, e vanno con le loro traiettorie parallele, come vedere qualcosa che si aggira dall’altra parte di un fiume. E poi invece di colpo, mentre sei distratto e guardi chissà dove, queste cose di colpo cambiano traiettoria e di colpo te le trovi che ti sbattono in faccia. Così, proprio così, in quei giorni mi avevano sbattuto in faccia e nella testa gli strani discorsi di mia zia. Adesso bisognava far passar del tempo.

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